Stando al rapporto INAPP 2022 su formazione e lavoro, terminata l’emergenza e superate le criticità emerse durante la crisi sanitaria della pandemia, sono riemersi i soliti e ben noti problemi strutturali del mercato del lavoro in Italia, in particolare quello “salariato” e normato dai contratti nazionali collettivi.
Un dato su tutti, ormai consolidato: l’Italia è l’unico Paese OCSE in cui il salario medio annuale è diminuito (-2,9%) nel trentennio 1990-2020, situazione resa ancora più critica dall’impennata dei prezzi al consumo, determinati dalla crisi geopolitica mondiale e dalla guerra in Ucraina, con il conseguente rincaro dei costi dell’energia. Tornando nello specifico al mercato del lavoro al livello del salario medio mensile si abbina una crescente polarizzazione in termini di tutele e protezioni diventata ormai strutturale. Tra i nuovi assunti nel 2021 i nuovi contratti sono per lo più a tempo determinato, 7 sui 10 stipulati, e aumenta la percentuale, oggi al del 10,8%, di lavoratori che pur occupati si ritrovano al di sotto della soglia di povertà (in UE la media è 8,8%). Aumenta il numero dei lavoratori costretti ad accettare lavori part-time per mancanza di alternative, oggi l’11,3% della platea dei lavoratori, ed aumentano i NEET, in particolare nelle regioni più svantaggiate del paese, non solo al sud.
A fronte di questo scenario, il mercato del lavoro diventa “vecchio”. Si calcola che fra 4 anni serviranno circa 4 milioni di lavoratori per rimpiazzare quanti andranno in pensione, di cui più della metà nello Stato, una cifra importante per un Paese nel pieno di un inverno demografico fatto di denatalità ed aumento della età media. Lo stato dell’arte dunque sta in questo paradosso: mancano lavori che siano “decenti” secondo gli standard dell’OCSE in termini di salario e tutele, e mancano lavoratori. Prendono infine forma modelli culturali nuovi che attribuiscono al lavoro un valore differente rispetto al secolo scorso
Sul versante delle aziende solo il 9,8% delle imprese ha adottato politiche di sostenibilità, fondamentali per ridurre l’impatto ambientale e migliorare le condizioni sociali dei lavoratori. La precarietà è ormai strutturale all’interno del mercato del lavoro italiano e questo danneggia anche pesantemente la produttività della forza lavoro, che non cresce da più di 30 anni nel nostro paese.
Ad una bassa produttività si accompagnano stipendi più bassi ed una precarietà crescente del lavoro. Il dibattito intorno al reddito di cittadinanza o del salario minimo legale rinvia alla necessità di misure per ridistribuire il reddito, o di altri interventi strutturali efficaci per ridurre al minimo il numero di occupati che non raggiungono la soglia della povertà.
Secondo quanto emerge dal rapporto l’aumento della produttività dipende dalla capacità di innovare processi e prodotti e dalle risorse in termini di capitale umano. Il tema della scuola e della formazione continua è tornato centrale nel discorso pubblico ma sconta, esattamente come il mercato del lavoro, le criticità già note ed evidenti negli ultimi anni, oltre ad un ritardo culturale aggravato dalla composizione del tessuto dell’impresa italiana. Solo il 22,8% delle aziende nel 2021 segnala la necessità di aggiornare la propria forza lavoro, praticamente solo le grandi aziende, le PMI stentano ad investire nell’aggiornare le competenze della loro forza lavoro.
Un mercato del lavoro polarizzato e sbilanciato inevitabilmente porta con sé un impoverimento del potere d’acquisto e del mercato interno e rende necessario un piano di intervento efficace per agganciare la crescita economica e della produttività, quando ci sarà, alla ridistribuzione del valore generato.