Il 2023 sarà arancione, come dicono i guru su Pinterest, colore must dell’anno, assieme al verde il colore della speranza, dell’ambiente da ripulire, dell’ecosistema da proteggere. Al nero quest’anno si preferisce il blu, il colore della scienza, del progresso e della tecnologia, dell’intelligenza nelle sue versioni attuali, umana e sintetica, o artificiale se si preferisce. Con i colori tornano anche i volumi, nonostante si immagini un periodo, lungo, di vacche magre. Torna la moda anni 90, grunge e jungle, pantaloni con i tasconi di taglio militare e i Doctor Marteens in tutte le versioni. Si fa spazio la moda anni 80, specie nella GenZ, affascinata da spalline e capelli cotonati. E ancora quella anni 50, pince e volumi ampi. Insomma vale tutto, e tutto diventa una delle tante skin con cui attrezzare il proprio avatar che esplora e prende dimestichezza con i nuovi ambienti del digitale e della realtà aumentata, metaverso compreso. Tornando alla pesantezza dell’essere e alla complessità dell’essente, iI 2023 è l’anno delle grandi transizioni, al plurale, e degli effetti collaterali compresi, il più delle volte rimossi nella coscienza collettiva di una società che ha voglia di ripartire, ma si scopre sempre più insicura e malinconica. Il mondo che esce dalla sindemia del 2020 non solo non è diventato migliore, ma fa i conti con le conseguenze della transizione, e cioè con le risorse che servono a sostenere i grandi cambiamenti e il loro costo sociale ed individuale. Gli effetti collaterali sono tanti e investono la persona e la comunità in tutto il quotidiano, tanto nel modo di vivere quanto in quello di pensare. Il contemporaneo digitale, ad esempio, non è un ambiente che si genera da solo in modalità solo virtuale, ma ha bisogno di energia elettrica e di acqua per raffreddare i server. Ha bisogno di silicio, di micro-conduttori, di chilometri di cavi e tubi per far passare i dati e connettere il mondo: il digitale cioè ha bisogno del materiale e del concreto per funzionare, compresa l’energia necessaria a far funzionare tanto i super computer quanto i semplici device, PC e smartphone in testa. La transizione diventa un rimosso collettivo proprio perché non è un pasto gratis. Assume la forma liquida dell’incertezza interiorizzata, o del “rischio” diffuso rispetto al quale le soluzioni non sembrano “convincenti” né rassicuranti. Il passaggio al green e al digitale diventa nel frattempo materiale per storytelling, molto mainstream e poco di più, schiacciato sul presente senza visione né prospettiva.
Qualche esempio: la lotta al cambiamento climatico e la spinta al consumo sostenibile fa i conti con la crisi nell’Est Europa, con la riapertura delle centrali a carbone o la rinnovata rincorsa al nucleare. La transizione “Green” costa, sia in termini di occupazione che di coesione sociale, ha un impatto geopolitico importante ed esattamente come il passaggio al digitale aumenta le disuguaglianze e i divari territoriali già evidenti nel mondo e nelle nostre comunità.
Come impatta la transizione sul nostro modo di vivere e di stare assieme? La sensazione di essere non sicuri e poco attrezzati rispetto alle “sfide” future mal si combina con l’idea diffusa di performanza, di competizione e di merito, piuttosto il rischio comporta una domanda di sicurezza personale e sociale e di quello che però non c’è, o che si pensa essere non sufficiente. Dopo il Covid-19, che ha riportato nel discorso pubblico il tema dei beni comuni, la salute, il lavoro e la scuola su tutti, siamo forse alla fine dell’era dello stato leggero. Nell’età del singolarismo, per cui ogni vita è un’opera d’arte ed è libertà senza compromessi (non sempre è chiaro da cosa e per fare cosa…) c’è bisogno di protezione dai rischi, qualsiasi essi siano ed a prescindere dal fatto che siano percepito o reali. Le parole chiave sono sempre le stesse: resilienza, ripartenza, flessibilità. Le speranze anche: guadagnare di più, vivere meglio, stare bene. Si è capito di sicuro che il mondo sta cambiando ed è cambiato mentre noi si era distratti da altre faccende.