Mai come oggi il positivismo è in completa crisi. Il cambiamento climatico sembra rappresentare sempre più un problema pressoché insormontabile che condurrà a conseguenze drammaticamente epocali ed allo stesso tempo il nostro sistema sociale ed economico sta portando a far emergere tutti i limiti del merito, un concetto sempre più astratto e lontano dalla nostra vita.
Sia chiaro, non è intenzione di chi scrive smentire la necessità di un apparato meritocratico o svilirlo, ma sarebbe da sciocchi pensare che sia il merito a dominare le gerarchie dell’Occidente: la patria dei liberi, gli USA, vede alternarsi alla presidenza pressoché solo membri di quell’antica aristocrazia delle 13 Colonie ed entrare ad Harvard è molto più una questione di soldi che di cervello.
Se Atene piange, Sparta certo non ride ed allo stesso modo molti Stati europei, Italia in primis, si stanno trovando a fare i conti con un ascensore sociale rotto e le drammatiche conseguenze di questa situazione, solo i Paesi nordici scampano ancora quello che appare un trend sempre più globale. Lo scoramento deprime gli sforzi di chi avrebbe avuto il desiderio di distinguersi in una realtà dove l’unico merito che conta realmente è quello ai vertici più alti della scala sociale: in effetti quei mastodontici corpi senza testa che sono le multinazionali sembrano essere trai pochi organi a credere più nei risultati che non nel sangue e da ciò traggono vantaggi immensi. Ma anche per giungere al vertice e trovare finalmente quel poco che è rimasto di meritocrazia il percorso è accidentato, con delle università sempre più povere che possono permettersi di premiare solo la crème de la crème con borse di studio adeguate.
È da tutto questo e molto altro che nasce la cosiddetta la cosiddetta “grande rassegnazione”, un sentimento di disinteresse verso il mondo del lavoro sempre più comune che si traduce in una nuova visione dello stesso: da strumento di nobilitazione delle fatiche e mezzo per dare uno scopo all’esistenza diviene meramente una questione di sopravvivenza, non ha senso faticare più del minimo, se non ci sono possibilità di successo. Un sentimento simile a questo si sta sviluppando in Cina, dove ha preso il nome di “TangPing”, ovvero stare sdraiati, tradotto da alcuni in inglese come Couch Generation. Nella terra degli han non è certo un segreto che siano sempre più i giovani a cui viene fornita la possibilità, proprio come in Occidente, di accedere ad università e formarsi. Questo è un dato senz’altro positivo, ma ha creato un surplus di lavoratori troppo qualificati che non desiderano lavorare nel contesto di una fabbrica o simili, dove le loro competenze sarebbero sprecate. E se ancora non incombe un pericolo di stop per quella che può serenamente essere definita “la fabbrica del pianeta Terra”, molto di più sembra preoccupare i governanti cinesi la scarsa propensione delle nuove generazioni a procreare. Un problema acuito dallo sbilanciamento tra maschi e femmine, dovuto alla politica del figlio unico, e dalla percezione fosca del futuro che accomuna Occidente e Oriente. Siamo dunque di fronte ad una presa di coscienza che potrebbe, in un tempo in cui la globalizzazione viene sempre meno, unire popoli tanto diversi tra loro, come sostiene Biao Xiang, professore di sociologia ad Oxford. Nonostante tutto alla fine gli uomini sono davvero più separati dalla classe sociale che dalle loro nazionalità? Molto interessante tuttavia risulta poi la percezione che le altre generazioni hanno dei più giovani “pantofolai”. In Oriente i genitori spesso incoraggiano i ragazzi a non rassegnarsi ad una posizione lavorativa non altezza delle competenze.
Il fenomeno è ormai di portata globale e, seppure con sfaccettature diverse, inizia a coinvolgere Paesi profondamente diversi tra loro per sviluppo e cultura. Una tendenza che va contro l’idea di “super-lavoro” che si era affermata nei decenni precedenti e che vede il lavoro come il principale scopo di vita per il quale vale la pena compiere sacrifici in nome della competizione e del profitto. Resta comunque un segnale fondamentale perché per la prima volta da decenni mette severamente in dubbio l’ambizione alla crescita rispetto a quella verso lo sviluppo come modello personale. L’attuale sistema economico è saldamente ancorato alla crescita, per cui forse è difficile sostituire quest’ultima con il più sostenibile concetto di sviluppo, più realisticamente i due modelli per ora si affiancano. La generazione di “sdraiati” nasce così all’interno di una società che esalta il successo economico ad ogni costo e lo mette in cima alla scala dei valori. Il tempo non è più solo denaro, ma anche affetti, crescita personale, divertimento ed è con questa consapevolezza che cambia il modo di percepirne il valore. Il COVID ci ha ricordato la fondamentale importanza delle nostre relazioni, che ora non può più essere messa in secondo piano, nemmeno rispetto ad un altro ambito fondamentale della nostra vita come il lavoro. La transizione porta oggi ad un sistema nuovo, che nasce intorno ad un nuovo modo di attribuire valore alle cose e alle relazioni, in un contesto economico e sociale molto modificato dal digitale, non solo in Occidente: un cambio di prospettive che attraverso un sentimento comune e problemi comuni come il cambiamento climatico diventa attuale. Un ribaltamento epocale della visione che abbiamo di noi stessi che non potrà non lasciare tracce.