In occasione dell’8 marzo, la Festa della Donna, abbiamo intervistato Laura Specchio, Specialist & Auditor UNI PDR 125 Parità di Genere, nonché titolare di uno Studio professionale dove svolge l’attività di consulenza del lavoro e aziendale sia nell’ambito di realtà imprenditoriali private che in rapporto con la PA, con un particolare focus sul mondo del fashion e del design. Nel luglio 2016 è stata eletta in Consiglio comunale a Milano ed è attualmente Capogruppo del Gruppo Consiliare Alleanza Civica per Milano e Presidente della Commissione Consiliare del Comune con deleghe in materia di Lavoro, Sviluppo Economico, Attività Produttive, Commercio, Risorse Umane, Moda e Design.
Gaia: Per le donne è più complesso trovare una collocazione sul mercato del lavoro adeguata al percorso di istruzione seguito, quali presupposti portano a ciò?
Laura: In Italia l’impianto normativo esistente sembra garantire una sostanziale parità giuridica per quanto riguarda le regole di accesso al lavoro unitamente alle regole di svolgimento dello stesso e le novelle si muovono da tempo in un’ottica di progressiva eliminazione delle discriminazioni fondate sul genere e di adozione di sempre maggiori tutele.
Le norme, da sole, non sono tuttavia sufficienti a garantire una concreta ed effettiva situazione di pari opportunità e di pari trattamento.
In linea generale, si può affermare che l’istruzione è un fattore chiave per la partecipazione al mercato del lavoro, anche se permane una evidente compartimentazione per genere del mercato occupazionale e la pari opportunità di accesso ai ruoli rappresentativi e apicali in favore delle donne è più teorica che reale.
Il problema presenta diversi aspetti: la cosiddetta “segregazione orizzontale” e quindi la concentrazione delle donne in determinati settori, come ad esempio quello di cura e quello dell’istruzione, riflette scelte relative ai percorsi di studio che spesso non riescono a soddisfare legittime aspirazioni professionali (numerose ricerche indicano il 67% delle donne che scelgono “studi umanistici”, a scapito di materie “STEM”); la cosiddetta “segregazione verticale”, il più volte citato “soffitto di cristallo”, sfugge sovente alle analisi quantitative. Quante volte, ad esempio, le donne arrivano alla fine di un percorso lavorativo che si ferma a posizioni di “quadro”, ma non riesce a fare il salto verso posizioni apicali? Senza generalizzare, si può ipotizzare che spesso si rientra nel campo delle discriminazioni; volontà e impegno per creare condizioni favorevoli all’accesso e permanenza nel mondo del lavoro non sono state sinora sufficienti.
È però importante sottolineare che all’origine di tale compartimentazione, vi sono anzitutto stereotipi culturali, purtroppo ben radicati, che incidono tuttora sull’atteggiamento adottato nei confronti del lavoro femminile.
È quindi fuor di dubbio che un incessante “lavoro culturale” si collochi alla base di un indispensabile cambiamento per depotenziare e combattere questo modo di pensare.
G: Il part-time per le donne è uno strumento di flessibilità utile a conciliare vita privata e vita
lavorativa, ma per il 60% di queste donne è involontario. Non Le sembra un dato significativo?
L: È senza dubbio un dato significativo e lo è ancora di più quando si tratta di una scelta non solo aziendale, ma che nasce all’interno del nucleo familiare: posizione lavorativa e maggiore retribuzione pendono sul versante maschile; cura e assistenza a fronte di una minore retribuzione si spostano invece sul versante femminile. In questo caso l’alternativa diventa “obbligata”. Ritorniamo quindi al punto di partenza: occorrerebbe creare le condizioni perché vi sia una effettiva parità di trattamento in termini di prospettive di carriera, di qualificazione professionale, di formazione imprenditoriale/professionale, di parità di retribuzione.
G: Gli stereotipi, in psicologia, sono opinioni precostituite e semplicistiche che tendono alla generalizzazione anziché alla valutazione dei singoli casi. Nel mondo di oggi gli stereotipi di genere raccontano le donne come meno competenti di quanto invece siano, frenando il loro avanzamento
di carriera. Quale pregiudizio la infastidisce maggiormente? E quale è più facilmente sgretolabile?
L: In Italia non possiamo non fare i conti con matrici culturali che si trascinano da tempo. Se affrontiamo il tema da un punto di vista sociologico o antropologico possiamo constatare che la cosiddetta “arretratezza socioculturale” ha costituito la base per l’esistenza di una cultura scarsamente corresponsabile che è anche all’origine di numerose anomalie della democrazia italiana, fra l’altro.
E gli stereotipi hanno radici talmente profonde che alla prova dei fatti una diffusa dose di ipocrisia sembra spesso aleggiare anche negli ambienti all’apparenza più illuminati e sensibili.
Se ne fa un gran parlare, ma un forte conservatorismo sembra permanere.
Quante volte organizzazioni di rappresentanza (tutte), istituzioni nazionali e internazionali, grandi realtà imprenditoriali si siedono ai “tavoli” con evidente prevalenza maschile?
Per sgretolare occorre mettere a nudo, denunciare, ma per farlo occorre anche superare situazioni di comodo che coinvolgono non solo gli uomini, ma anche tante donne.
Le radici culturali non stanno, infatti, da una parte, ma sono condivise.
In tal senso, la necessità di una evoluzione della società nel suo complesso appare indispensabile.
G: La donna è più facilmente immaginata come cheerleader che come leader. Vista come colei che si prende cura del team e della famiglia, perché la donna ha minore possibilità di accesso a figure di leadership?
L: Torniamo al necessario “lavoro culturale” da intraprendere. Gli stereotipi, purtroppo ben radicati, che incidono tuttora sull’atteggiamento adottato nei confronti del lavoro femminile, sono una realtà.
Gli stereotipi riducono, tra l’altro, le potenzialità del sistema economico con conseguente sottoutilizzo del lavoro femminile in termini, sia quantitativi, sia qualitativi.
La disuguaglianza basata sul genere è, d’altro canto, un fenomeno trasversale che, seppur in maniera diversa e con forte dipendenza da elementi di natura storica, culturale e religiosa, è riscontrabile nell’intera dimensione sociale.
Si potrebbe ripensare a come rafforzare il sostegno alle aziende che promuovono la leadership femminile attraverso meccanismi premiali che prevedano e/o potenzino eventuali benefici, riconoscimenti, incentivi fiscali dedicati, ecc. ed utilizzare ogni altro mezzo che possa ritenersi idoneo a promuovere una “cultura” del lavoro e dell’impresa più consapevole, responsabile e sensibile alle tematiche di genere.
G: I congedi parentali sono garantiti maggiormente alle madri rispetto ai padri, ma anche di fronte al congedo condiviso, la coppia sceglie di far lavorare il padre, poiché comporta una perdita
economica minore. Ciò porta a uno scarso utilizzo del congedo di paternità. Quali politiche per la
conciliazione famiglia-lavoro possono realmente fare la differenza?
L: La conciliazione è da ritenersi ormai elemento cruciale, decisivo nello sviluppo e nella crescita del lavoro femminile e non argomento da relegare ai margini della discussione quale semplice corollario.
A fronte delle trasformazioni e dei cambiamenti avvenuti, e in corso di svolgimento nel mondo del lavoro, anche dovuti all’innovazione tecnologica, non si può poi più prescindere da una riflessione relativa ai tempi, luoghi e modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.
In questa riflessione, conciliazione e flessibilità meritano di essere percepite come ambito di condivisione tra membri della stessa comunità, indipendentemente dalle differenze di genere.
Molte sperimentazioni adottate nel recente passato sull’argomento si sono dimostrate positive e meritevoli di maggior diffusione.
Si pensi, ad es., alla sperimentazione relativa allo “smart working”.
Anche la promozione di modelli di welfare aziendale, che garantiscano, in particolare, servizi di cura alle persone e all’infanzia, può essere un importante segnale di maturazione culturale e segnare la differenza con le rigide impostazioni tradizionali.
Alcune imprese di grandi dimensioni hanno da tempo inaugurato queste nuove forme di tutela del benessere lavorativo e familiare delle lavoratrici e dei lavoratori, superando il concetto classico di retribuzione.
Si ritiene però sia giunto il momento di accelerare nella sperimentazione di soluzioni innovative, sia in ambito pubblico, sia in ambito privato, per aprire la strada a questo tipo di possibilità anche in contesti e dimensioni aziendali medio piccole.
G: Il gender gap tra settore pubblico, privato e autonomo è evidente: nel pubblico il gap è più basso
perché è un settore più regolamentato. Su cosa dovrebbero concentrarsi gli altri due settori?
L: Se volgiamo lo sguardo al settore privato o a quello autonomo ci troviamo di fronte a realtà articolate con presenza di diversi ambiti per cui è difficile generalizzare. Ci sono settori, infatti, come, ad esempio, quello dei servizi e di molte professioni, che vedono al proprio interno una presenza femminile consistente.
Sul punto sono invero possibili esperienze di gruppo, attraverso contenitori efficaci non solo per creare sinergie virtuose, ma anche per facilitare donne e uomini occupati in realtà imprenditoriali o professionali di ridotte dimensioni nella gestione del proprio tempo di vita e di lavoro.
Per le microrealtà imprenditoriali, del lavoro autonomo e delle professioni, soluzioni aggregative potrebbero, inoltre, offrire il necessario supporto per accedere a prestazioni e servizi che vadano oltre la componente meramente economica della retribuzione e del compenso e possano migliorare, sia la vita lavorativa, sia la vita privata in numerosi ambiti.
Riguardo alle categorie meno tutelate, si osserva poi che il rischio di espulsione dal mondo del lavoro non riguarda solo le lavoratrici dipendenti; tante lavoratrici autonome in caso di malattia, infortunio e soprattutto di gravidanza rischiano di compromettere in maniera spesso non reversibile i propri percorsi professionali.
In mancanza di Organismi collettivi di garanzia (si pensi ad es. alle cd. professioni non ordinistiche) l’ipotesi di prevedere l’istituzione di meccanismi di tutela accessibili ad una platea più ampia potrebbe essere ulteriore materia di intervento per supportare le lavoratrici di fronte a queste eventualità.
G: Parliamo ora di “femminili professionali” con la consapevolezza che il linguaggio non è un futile accessorio. Le resistenze all’uso del femminile per molti titoli professionali sono di carattere culturale. Usare i femminili professionali non risolve di per sé i problemi delle donne, ma può aiutare a normalizzare la loro presenza in contesti professionali in cui prima erano assenti. Qual è la Sua esperienza in merito?
L. ad essere sincera in ambito professionale non mi è capitato di essere chiamata “Dottore” anziché “Dottoressa”, piuttosto può capitare che si chiami “Dottore” un collega e “Signora” (e non Dottoressa) la professionista. Questo è piuttosto grave…
G: Per creare una società che abbia alla base la parità di genere occorre intervenire sul piano
educativo (che non si esaurisce con la maggiore età). Nel mondo lavorativo quali soluzioni a favore della parità di genere si potrebbero adottare?
L: Lavorare su azioni concrete di sensibilizzazione a partire dall’infanzia sarebbe prioritario. Il lavoro culturale cui si faceva prima cenno è indispensabile per abbattere stereotipi che relegano la donna a ruoli di subalternità.
Lavoro che compete non solo alle famiglie, ma anche alle scuole di ogni ordine e grado e ai luoghi di socialità.
È, infatti, indispensabile che nell’ambito di una collettività si lavori tutti insieme, sia sotto il profilo dei cambiamenti culturali, sia sotto il profilo dei cambiamenti materiali, perché i cambiamenti di breve respiro sovente tamponano soltanto un’emergenza, quelli più duraturi si possono realizzare solo con il contributo di tutte e di tutti.
Si può aggiungere che sarebbe necessario anche incoraggiare, sostenere e orientare sempre più donne ad intraprendere studi in materie scientifiche e/o in ambiti tradizionalmente appannaggio dell’altro genere.
Certamente, nella prospettiva di rendere concrete ipotesi e proposte anche nei vari livelli territoriali sarebbe utile avere a disposizione un sistema di “gender budgeting”, in maniera tale che, al momento della predisposizione del bilancio preventivo, si possano impostare ed approvare specifici capitoli che tengano conto delle esigenze di genere.
In questa direzione occorrerebbe adottare dei meccanismi di “gender auditing”, al fine di valutare l’effettiva realizzazione delle azioni previste in sede di approvazione del bilancio consuntivo e segnare finalmente quel “cambio di passo” che da molti anni si attende.
Valorizzare le pratiche virtuose che possano essere di esempio, stimolo e aiuto alle donne che vogliono approcciarsi in maniera più efficace e inclusiva nel mondo del lavoro e a quelle che fanno o vogliono fare impresa, potrebbe costituire un ulteriore contributo attivo alla realizzazione di progetti con esiti positivi.
G: La quota di genere (che solo in Italia viene chiamata “rosa”) serve a colmare un’ingiustizia di base intervenendo sulla fase finale di un percorso. Ritiene necessario intervenire anche al principio, cioè sulla situazione di partenza?
L: in linea di principio sarei contraria alle cosiddette “quote rosa”, ma talvolta, le “forzature” si rendono necessarie per sbloccare situazioni di stallo.
Senza dubbio occorre lavorare all’origine. Come già detto, occorre un “lavoro culturale” a tutti i livelli e ripensare a una nuova e aggiornata organizzazione del lavoro nel suo complesso in maniera tale che sia non solo idonea a creare condizioni per una effettiva parità, ma che sia più aderente ai cambiamenti sociali, culturali economici e tecnologici in atto; questo sarebbe un passo decisivo.