Ha finalmente iniziato ad aumentare il numero delle imprenditrici, il livello di istruzione femminile è ormai superiore a quello maschile, ma sono ancora troppe poche le donne che lavorano.
Secondo il Rapporto Unioncamere sull’imprenditoria femminile, sono 2mila in più le imprese femminili nelle Attività professionali, quasi 1.500 in più quelle attive nelle Attività immobiliari, circa 1.000 in più nei Servizi di comunicazione e nelle Attività finanziarie, 800 in più nel Noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese. A fine 2022 le imprese femminili registrate sono 1.337.000, il 22,21% del totale delle imprese. L’evoluzione delle imprese femminili dello scorso anno mostra con chiarezza un cambiamento in atto nella partecipazione delle donne al sistema produttivo. Alcune roccaforti della presenza imprenditoriale femminile quest’anno hanno vacillato: il Commercio; l’agricoltura; le Attività di alloggio e ristorazione. Tutti gli altri settori, alcuni dei quali storicamente hanno un tasso di partecipazione femminile inferiore alla media, registrano invece incrementi significativi. E molti di questi rientrano tra i settori più innovativi o comunque a maggior contenuto di conoscenza. A livello complessivo, il 2022 vede un’incidenza delle imprese a guida femminile sul tessuto imprenditoriale italiano del 22,2%, pari a oltre 1,3 milioni di aziende (22,1% l’incidenza nel 2021, dati Prometeia). Un risultato significativo nonostante, a causa della coda lunga della pandemia, il calo di 6mila unità (ma sono oltre 40 mila le imprese maschili andate perse lo scorso anno). Resta invariata la distribuzione dell’imprenditoria femminile per tipologia di impresa: più alta nelle ditte individuali (il 28%) e più bassa nelle società di capitali (il 18%), con le società di persone in posizione intermedia e allineate al dato complessivo (21%). La presenza femminile è, invece, in forte aumento nelle nuove tipologie di imprese: pmi innovative e soprattutto start up vedono una costante crescita delle imprese a guida femminile, giunta al 9% e al 16% delle rispettive forme societarie. Dal punto di vista geografico, il Centro-Sud si conferma il territorio a maggior tasso di femminilizzazione, anche se con risultati di segno opposto a seconda della tipologia di attività: è calata l’occupazione indipendente (ma è cresciuta quella complessiva), mentre al Centro è aumentato il peso delle start up, ma è calato quello delle pmi innovative. Un ambito in cui si esprime la crescente imprenditorialità femminile e la forte sensibilità ai temi sociali è quello dell’economia sociale. Un mondo di oltre 360mila imprese e istituzioni che già oggi evidenziano, rispetto alle imprese tradizionali, una maggior rilevanza dell’occupazione femminile (prossima al 60%) anche in posizioni manageriali (oltre una dirigente su quattro) e in cui si è registrato un vero e proprio boom di aperture di start up guidate da donne (nel 2022 sono state il 38% delle start up con vocazione sociale, una quota raddoppiata rispetto al 2019). In Italia su 23.286.000 occupati, indipendenti e dipendenti, il 42% è donna, ma è il terziario di mercato che traina l’aumento dell’occupazione femminile dopo la pandemia. Le elaborazioni dell’Ufficio Studi Confcommercio su dati Inps indicano che nel biennio giugno 2020-giugno 2022 l’incremento dell’occupazione dipendente femminile, è stato di oltre il 19% nei servizi, risultando non solo superiore alla componente maschile del terziario (+17,4%) ma ben al di sopra della crescita occupazionale femminile dell’intera economia (+15,7%). In termini assoluti, dei nuovi posti di lavoro dipendente regolare creati nel medesimo periodo nel terziario di mercato, pari a quasi 1,4 milioni, ben 733mila sono dovuti a donne, con una percentuale di nuove occupate pari al 53% del complesso dei nuovi lavoratori.
Nonostante le ultime generazioni abbiano raggiunto un livello di istruzione e di rendimento scolastico superiore a quello degli uomini, e pur in presenza di una normativa tra le più avanzate in Europa, le donne in Italia continuano a lavorare poco, a guadagnare di meno e ad avere pensioni più basse. Senza contare le minori opportunità di carriera. I numeri aggiornati di una disparità che continua sono emersi dal seminario Le scomode cifre dell’Italia delle donne organizzato dal Consiglio nazionale degli attuari con Noi Rete Donne, che ha visto la partecipazione – tra gli altri – dell’ex ministra del Lavoro Elsa Fornero e del giuslavorista Giuliano Cazzola. Nel 2021 il reddito pensionistico medio lordo mensile delle circa tre milioni di pensionate italiane era di 1.321,14 euro, contro 1.970,19 euro dei circa cinque milioni di pensionati. Il cosiddetto “differenziale di genere” è il 32,9: significa che rispetto alla media del totale delle pensioni di vecchiaia, gli uomini percepiscono il 32,9% in più. Dietro ai numeri delle pensioni, hanno spiegato le relatrici Liana Verzicco, Giuliana Coccia e la presidente del Consiglio nazionale degli attuari Tiziana Tafaro, ci sono quelli del lavoro: il tasso di occupazione femminile in Italia è il 55%, oltre i 14 punti percentuali in meno rispetto alla media europea e oltre 18 punti rispetto alle economie più avanzate d’Europa. Nonostante il cambio di passo delle generazioni più giovani, in Italia le donne continuano a essere impiegate soprattutto nei servizi pubblici, in particolare istruzione e sanità e in generale nei servizi alla persona. Questo è una delle cause di redditi medi inferiori agli uomini, unitamente alla maggiore esposizione a lavori precari. Nel 2021 la retribuzione media lorda settimanale è stata di 603,8 euro per gli uomini e di 468,12 euro per le donne. Rispetto alla media totale delle retribuzioni gli uomini guadagnano quindi – al lordo – il 22,5% in più. Un peso determinante lo ha anche la difficoltà di conciliare vita lavorativa e carichi familiari, che influisce negativamente sulla carriera. Per comprendere il fenomeno le relatrici del seminario Attuari-Noi Rete Donne hanno fornito un dato che riguarda le madri di figli in età pre-scolare. Su 100 donne tra 25 e 49 anni di età, 73 hanno figli piccoli e di queste 27 non lavorano.
Secondo Elsa Fornero, in Italia abbiamo un welfare sbilanciato sulla parte finale del ciclo di vita: le pensioni:
“È un riflesso condizionato, quando pensi al welfare, pensi alle pensioni perché, fra l’altro, è la parte di spesa sociale ben più rilevante. In realtà il welfare riguarda tutta la vita lavorativa, perché nella vita lavorativa si formano o si disfano le famiglie, e si hanno figli e c’è la difficoltà per esempio di conciliare la vita di lavoro con la vita familiare per le donne. Ma c’è anche tutto il prima: il welfare, quindi, lo dobbiamo vedere legato al concetto di vita intera. Che colpa ha un bambino se nasce in una famiglia che, essendo povera, non gli dà la giusta alimentazione o che non dà importanza alla scuola? Allora il compito del welfare dello Stato sociale è di cominciare a ridurre le disparità dall’inizio”.