Più di un cittadino su tre avente diritto al voto non lo ha esercitato; l’astensionismo non ha mai influito sulle elezioni in queste percentuali, con un ulteriore 10% di voti persi rispetto alle elezioni del 2018 (già record di astensionismo).
Se pure il centrodestra, con FDI in testa, si avvia verso una vittoria storica, certamente guadagnata, ma dovuta anche e soprattutto ad un sistema elettorale che premia chi è maggiormente in grado di creare larghe coalizioni (da sempre non la specialità della sinistra), questa volta si può veramente dire: il partito più grande è quello degli astenuti con oltre il 36% di “non voti”.
E’ un dato storico che dimostra come il divario tra il comune cittadino e la “casta” politica non sia mai stato così ampio, e soprattutto nelle classi meno abbienti del Paese la sfiducia verso un sistema che appare da anni in crisi e privo di nuove soluzioni sia enorme. Non è un caso che l’astensione tocchi soprattutto il Sud, che da sempre si sente emarginato dal resto del paese e dove la situazione economica e sociale è un problema irrisolto da ormai 160 anni. E pure i giovani, tra gli ostacoli per i fuori sede ed un’offerta che si incontra troppo poco con le loro esigenze, sembrano sempre più ritirarsi dall’agone politico.
Ma sarebbe miope rivolgere l’attenzione solo su queste due categorie parlando di elezioni in cui in ogni singola regione italiana, quale più quale meno, si è registrato un calo delle affluenze. Un calo peraltro che non ha certo avuto inizio nell’ultima e difficile legislatura, segnata da pandemia, guerra e conseguenti crisi economiche, ma che vede una progressione proporzionale dall’aspetto sempre più preoccupante.
Certamente la scomparsa a partire dalla fine della Prima Repubblica di un polo di sinistra anti-sistemica, come si poteva considerare il PCI, poi lentamente tramutatosi nel PD che è divenuto il partito di sistema per eccellenza, ha privato una base elettorale del suo riferimento, ma i miseri risultati dei partiti di estrema sinistra (Unione Popolare raccoglie meno dell’1,5%) dimostrano che non è certo quello il problema principale.
La disattenzione piuttosto della politica nazionale per i territori, con candidati che poco hanno a che fare con la zona di elezione e senza la possibilità di indicare la preferenza per un candidato, sembra essere al centro di questa crisi. Le proposte sono esigue e pure i programmi elettorali a livello nazionale sono vaghi e spesso totalmente inconsistenti ad un’attenta indagine.
Ancora, pochi volti nuovi: certamente verrà difficile per le generazioni ed in generale i cittadini che hanno patito dure conseguenze dagli scossoni economici degli ultimi anni affidarsi a coloro che non hanno potuto in alcun modo prevenirli ed hanno anzi proposto poco per dare al Paese la svolta strutturale di cui avrebbe bisogno.
Se ad una prima analisi i grandi sconfitti paiono la Lega, che fallisce nel raggiungere il 10% e dimostra che la crisi non ha riacutizzato i particolarismi regionali, ma ha riunito tutti sulla stessa barca, e la coalizione di centrosinistra del PD, che ancora non riesce ad imporsi come polo leader della sinistra staccando nettamente i suoi rivali del Terzo Polo e del Movimento 5 Stelle, i veri sconfitti sono proprio gli elettori, a tal punto insoddisfatti dalla proposta politica e dalle ultime legislature da ritenere indifferente esprimere il proprio voto o meno e, soprattutto, l’un polo rispetto all’altro.
Il campanello d’allarme era già ampiamente suonato, ma è stato ignorato totalmente; questa volta suona ancora più forte ed il mondo politico non può permettersi di fare orecchie da mercante, altrimenti rischia di ritrovarsi nei prossimi 10/15 anni con una percentuale di astenuti superiore a quella dei votanti, con tutti i gravi problemi di legittimità in cui un Parlamento a tal punto menomato nella sua rappresentatività incapperebbe. Se un cambio di legge elettorale è auspicabile (come lo era già dai tempi del referendum sul taglio dei parlamentari, foriero di gravi squilibri), potrebbe non essere sufficiente a questo punto per far tornare gli italiani alle urne. Si potrebbe poi potenziare l’educazione civica nelle scuole, per motivare di più le nuove generazioni a scendere in campo, ma l’impressione è che la frattura sia davvero difficile da sanare e richiederà anni ed anni di lavoro, se qualcuno vorrà occuparsene.